“Se Annibale ha attraversato le Alpi addirittura con gli elefanti, significa che il clima era più caldo di oggi”.
Questa è una delle “teorie” sul clima nell’antichità forse più diffuse sul web (diversi siti di presunta informazione storica ne parlano e ne hanno parlato).
In realtà, senza entrare nello specifico della paleoclimatologia, basta considerare con attenzione le fonti storiche per rendersi conto che la spedizione di Annibale non dimostra che in epoca romana faceva più caldo.
Parliamo del famoso passaggio delle Alpi che Annibale compì con il suo esercito nel 218 a.C: un evento storico-militare sicuramente clamoroso che è considerato l’inizio “ufficiale” delle ostilità della seconda guerra punica. Il condottiero cartaginese marciò di sorpresa con il suo esercito verso l’Italia romana. Dopo aver valicato le Alpi ed avere ripetutamente sconfitto la popolazione dei Taurini, proseguì la sua marcia fino al Ticino e alla Trebbia, dove sconfisse ripetutamente le truppe di Roma.
Ad una attenta lettura delle fonti storiche, non possiamo non rilevare alcuni dati importanti. Il primo è che non possiamo affermare con esattezza da quale passo delle Alpi occidentali sia passato Annibale.
L’ipotesi preferibile sembra essere quella del colle Clapier. Il colle Clapier (2491 m) è un valico alpino dal passaggio relativamente agevole, situato nelle Alpi Cozie lungo la linea di confine tra l’Italia e la Francia. Si trova a sud del colle del Moncenisio e a nord della Rocca d’Ambin e congiunge il comune di Giaglione (nei pressi della città di Susa) con il comune francese di Bramans.
Le descrizioni della marcia di Annibale riportate in Polibio e in Tito Livio si adattano piuttosto bene alle caratteristiche geografiche e morfologiche di questo valico.
Secondo Polibio Annibale, una volta arrivato sul passo, avrebbe tenuto il suo famoso discorso alle truppe per rincuorarle dopo le immani fatiche superate. Nel discorso avrebbe indicato la pianura del Po che sarebbe stata visibile dal passo: così è per il Colle Clapier.
Tito Livio, da parte sua, racconta che, nella discesa del versante italiano, per superare un ostacolo si sarebbe reso necessario tagliare la roccia. L’opera venne eseguita accendendo grandi pire di fuoco per riscaldarla e quindi raffreddarla bruscamente, per poi attaccarla con picconi. Uno studio di fisici canadesi ha analizzato rocce provenienti dal lato italiano del colle Clapier che presentano segni di bruciature: è giunta alla conclusione che sarebbero dovute a fuoco da legna da ardere.
Premesso questo, e cioè che quella del passaggio dal colle Clapier è un’ipotesi più che plausibile, ci sono almeno due buoni motivi per confutare l’affermazione che il passaggio delle Alpi di Annibale indichi che il clima all’epoca era più caldo.
Infatti, se analizziamo con attenzione le fonti storiche di Tito Livio e Polibio, possiamo ipotizzare che la situazione potesse addirittura essere opposta.
Il momento del passaggio delle truppe cartaginesi è da collocare tra settembre e la fine di ottobre del 218 a.C. Questo lo sappiamo da un dato astronomico: nelle fonti si parla del tramonto delle Pleiadi.
Gli storici ci dicono che Annibale e suoi dovettero camminare su neve fresca recente che copriva neve vecchia dell’inverno precedente: questo rese il passaggio molto scivoloso e pericoloso.
Ora, il fatto è che oggi dei colli alpini intorno ai 2500-3000 metri con neve sopravvissuta all’inverno precedente non si possono trovare più, da nessuna parte, a detta degli esperti di montagna.
Dunque questo dato riportato sia da Livio che da Polibio ci fa pensare che, se mai, quella del 218 a. C. fosse una stagione autunnale più fredda delle nostre.
L’effetto serra ai tempi dei Romani. Sembra impossibile ma esisteva già.
Nel lontano 2012 uno studio condotto da un gruppo di scienziati di diverse università del Nord Europa coordinati da Célia Sapart (una climatologa svizzera, all’epoca docente all’università di Utrecht ed oggi direttrice della organizzazione no-profit “CO2 Value Europe”) aveva fatto una singolare scoperta, poi rimbalzata dalle agenzie di stampa sui giornali di mezzo mondo. Già duemila anni fa gli antichi Romani e i loro coetanei cinesi immettevano nell’atmosfera grandi quantità di metano.
Lo studio fu pubblicato su “Nature” e, come si è detto, suscitò non poco clamore (la questione dell’”effetto serra” era già ben presente nel dibattito sull’ambiente, anche se non in maniera totalizzante come oggi). Gli scienziati ipotizzavano che almeno il 20-30 % di metano, che insieme all’anidride carbonica e agli altri tre gas serra è il principale responsabile del “greenhouse effect”, fosse stato prodotto molto prima della rivoluzione industriale.
Lo studio venne condotto in massima parte tra i ghiacciai della Groenlandia, misurando la quantità di metano rimasto intrappolato per millenni all’interno dei grandi blocchi di ghiaccio.
Grazie ai metodi della paleoclimatologia, si poté accertare che una forte eccedenza del gas era databile intorno al I e II secolo dopo Cristo: esattamente il periodo di massimo sviluppo, da una parte, della Roma imperiale e dall’altra della dinastia Han in Cina.
Come venne prodotto, però, tutto questo metano?
Gli scienziati indicarono due fonti: una naturale, l’altra derivata dall’azione umana.
Per la prima vennero chiamati in causa i batteri (propriamente, i metanobatteri), che nelle zone umide rilasciano metano. Va da sé che questa produzione si riduce nei periodi di siccità, man mano che le zone umide si restringono.
L’azione umana, da parte sua, contribuiva all’emissione di metano per esempio con le risaie (da qui il riferimento alla Cina), o anche dalla combustione di aree forestali per la coltivazione, o infine dall’uso del legno nelle fornaci (attività che ebbero grande sviluppo con l’espansione dell’impero romano).
Ma quale delle due fonti si può considerare prevalente in questo singolare fenomeno di “effetto serra” pre-industriale?
Uno degli scienziati che firmarono la ricerca , il prof. Thomas Blunier (un fisico del clima ancora oggi in forza al prestigioso Niels Bohr Institute di Copenhagen) spiegò che “ogni fonte ha una composizione differente. Il metano prodotto bruciando legno contiene più isotopi pesanti (carbonio-13) di quelli leggeri (carbonio-12)”.
E dunque classificando le quantità ritrovate in base a queste differenze, fu possibile stabilire che l’abbondanza di gas era dovuta alla mano dell’uomo, e non a fattori naturali.
La controprova secondo gli scienziati di questa tesi è nel fatto che, nei campioni di ghiaccio datati all’epoca del declino dell’Impero Romano, la quantità di metano trovata risultò essere molto più bassa.