La notizia è di quelle col segno positivo, non c’è dubbio. E di questi tempi ce n’è
davvero bisogno.
La superficie dei boschi in Italia è in continuo aumento.
Non è una novità, peraltro. Sono decenni che si registra una crescita costante e
significativa della superficie forestale nazionale. Tra il 1985 e il 2015, la superficie
boschiva è aumentata del 28%, passando da 8,7 a 11,1 milioni di ettari.
Nel 2023, gli ettari di foreste gestite in maniera sostenibile in Italia sono saliti a circa
980.000, con un incremento del 5,9% rispetto all’anno precedente, a dimostrazione
di un trend ormai consolidato. I boschi oggi coprono circa il 37% del territorio
italiano: il che fa di noi il secondo fra i grandi Paesi in Europa per copertura
forestale. Ci supera la Spagna, con il 55,4% di boschi. Naturalmente da questa
classifica sono esclusi, perché vincitori a mani basse, i Paesi scandinavi: Finlandia,
con circa il 75-80% del territorio coperto da foreste, e Svezia, con circa il 62,5% (ma
attenzione: la vicina la Slovenia è anch’essa intorno al 60% di copertura forestale).
Ma è tutto oro quello che luccica? O meglio, è tutto davvero green alla massima
potenza questo verde italiano?
Non proprio. Prima di tutto perché l’espansione dei boschi è dovuta principalmente
all’abbandono dei terreni agricoli e allo spopolamento delle aree montane e
collinari. Ce ne accorgiamo drammaticamente in occasione degli eventi estremi del
meteo: quando la mancata gestione delle aree forestali e boschive è concausa
accertata di parecchi disastri per le comunità che vivono ai margini di questi boschi
(e non solo: si pensi ai danni arrecati dalle piene dei fiumi).
E’ pur vero che in Italia cresce anche la superficie di boschi gestiti in modo
sostenibile.
Lo certifica un ente come il PEFC (Programme for the Endorsement of Forest
Certification schemes), un’associazione internazionale senza scopo di lucro che
promuove appunto la gestione sostenibile delle foreste tramite un sistema di
certificazione indipendente di terza parte.
Il PEFC Italia – i cui soci includono proprietari forestali, amministrazioni pubbliche,
associazioni di categoria, ordini professionali, organizzazioni ambientaliste e altri
soggetti interessati alla gestione sostenibile delle foreste – sviluppa gli standard
nazionali di gestione forestale conformi ai criteri internazionali PEFC.
Nel suo ultimo Rapporto (febbraio 2025), il PEFC ha dunque registrato un nuovo
traguardo per il settore: a fine 2024, la superficie certificata PEFC ha superato il
milione di ettari: precisamente 1.061.059,26, con un incremento dell’8,2% rispetto
all’anno precedente. Anche il numero di aziende con certificazione di Catena di
Custodia PEFC ha visto una crescita del 16,8%, con 236 nuove adesioni, portando il
totale a 1.585.
Al primo posto fra le regioni con superficie certificata c’è il Trentino Alto Adige; poi
vengono Friuli-Venezia Giulia e Piemonte. Riguardo alle aziende certificate, il Veneto
mantiene il primato, seguito da Lombardia e Trentino Alto Adige.
La gestione forestale in Italia. Una “selva” normativa
E nonostante questo, la realtà è che solo una parte del patrimonio forestale è
attualmente gestito attivamente, con circa l’80% dei boschi italiani non sottoposti a
piani di gestione forestale.
La maggior parte dei boschi italiani, poi, non è secolare e viene tagliata dopo 10-20
anni. Impedendo loro di raggiungere un’età avanzata, diminuisce di molto la
capacità di accumulo di anidride carbonica tipico delle foreste più antiche.
La ragione è semplice: molti boschi sono piantagioni create per essere gestite come
risorsa legnosa a breve termine, non foreste selvagge o naturali.
Ma c’è un’altra variabile tipicamente italiana nella questione. La gestione forestale,
che è spesso frammentata e limitata da vincoli normativi, costi elevati e scarsa
organizzazione della filiera. Tutti fattori che scoraggiano la conservazione dei boschi
secolari.
Da una parte, infatti, la legislazione forestale italiana è tra le più tutelanti e
restrittive d’Europa (in questo siamo sempre tra i primi: sulla carta).
Dall’altra, la gestione spesso frammentata e condizionata da vincoli di diverso tipo
porta una serie di conseguenze. Come la rinnovazione naturale difficile, perché
spesso ostacolata da foreste troppo dense, con copertura chiomata elevata che
limita la luce necessaria per la crescita di nuovi alberi, e dalla pressione di pascolo o
di selvaggina che danneggia i giovani alberi, impedendo il ricambio generazionale
necessario per la formazione di boschi secolari.
La gestione selvicolturale da adottare per preservare alberi monumentali e boschi
secolari richiede interventi mirati come diradamenti selettivi per ridurre la
competizione tra alberi giovani e vecchi, favorire la rinnovazione e aumentare la
diversità delle specie. Sono questi interventi ad essere limitati in Italia dai costi, dalla
complessità organizzativa e dalla mancanza di coordinamento tra enti.
Cui prodest tutto questo? Naturalmente allo sfruttamento economico del
patrimonio forestale. E ai suoi beneficiari.
Il Testo unico forestale è la principale normativa italiana in materia di foreste e
filiere forestali, entrata in vigore il 5 maggio 2018. Il suo obiettivo (sulla carta) è
quello di uniformare e coordinare a livello nazionale le politiche forestali, che
coinvolgono diversi enti come il Ministero delle politiche agricole, le Regioni, il
Ministero dell’ambiente e il Ministero della cultura.
Il decreto riconosce il patrimonio forestale come parte del capitale naturale
nazionale e bene di interesse pubblico da tutelare per il benessere delle generazioni
presenti e future. Definisce inoltre la nozione di bosco e disciplina la gestione
sostenibile delle foreste, in linea con gli impegni europei e internazionali.
Fin qui tutto bene. Poi però, scendendo nel concreto, i problemi affiorano.
Ad esempio: il Testo unico, pur vietando il taglio a raso, impone che il bosco non
rimanga inutilizzato. Cioè se il proprietario non provvede al taglio del bosco ceduo
dopo un certo periodo, il terreno può essere considerato “abbandonato” e la
gestione affidata ad altri soggetti.
Questo obbliga a una gestione attiva e spesso a tagli frequenti, che impediscono agli
alberi di raggiungere un’età secolare.
La normativa, poi, non prevede una zonizzazione differenziata che tenga conto della
variabilità degli habitat forestali e della necessità di conservare boschi antichi e
biodiversi. Così come sono stati considerati troppo generici e poco espliciti i richiami
allo sviluppo sostenibile nella pianificazione forestale.
Non che non vi sia tutela legislativa degli alberi secolari, in Italia (storica è stata in
questo senso la legge del 2013). Ma è limitata a singoli individui monumentali per il
loro valore storico o paesaggistico. Quello che manca e che viene invocato da molte
parti è una normativa specifica per la conservazione di interi boschi secolari e delle
loro funzioni ecologiche.
Mancanza di criteri omogenei per l’individuazione e la gestione. Difficoltà nella
gestione attiva e negli interventi selvicolturali. Sovrapposizione e complessità
normativa. Ritardi e carenze nella gestione pubblica (mentre il 50% dei boschi
secolari in Italia è ancora di proprietà privata). Tutti ostacoli ad una corretta ed
efficace gestione dei nostri “grandi vecchi” verdi: che intanto devono fare i conti,
senza grandi aiuti da parte dell’uomo, con il cambiamento climatico, che rende
sempre più difficile il loro compito di difesa e protezione dell’intero ecosistema,
umani compresi.