Una piccola città che sorge e si distende sul dorso pianeggiante di un colle alto sul mare circa trecento metri. Ha tutto intorno ubertose e ridenti campagne; e domina dall’alto un immenso panorama…
Così Giuseppe Chiarini, letterato e biografo di Giacomo Leopardi, descriveva il “natio borgo selvaggio” del poeta recanatese di “A Silvia” e “L’infinito”.
E’ la posizione sommitale, infatti, dominante su un panorama a trecentosessanta gradi davvero sconfinato e vario, che fa di Recanati forse la più bella “città balcone” marchigiana (si gioca il primato con la vicina Cingoli) e una perla unica tra i borghi di tutto il Centro Italia.
Ben più di un borgo, in realtà. Una cittadina di 20 643 abitanti della provincia di Macerata, che a partire almeno dal Quattrocento fu importante centro fondiario e di scambi commerciali, frequentato da uomini di lettere, giuristi e celebri artisti: Lorenzo Lotto, Guercino, Caravaggio, Sansovino, Luigi Vanvitelli.
Recanati e Leopardi. Un binomio sempre da scoprire e riscoprire
Certamente il giovane, ombroso e studiosissimo rampollo di Casa Leopardi, il conte Giacomo, non avrebbe mai pensato in vita sua di diventare – come si dice oggi – il brand turistico-culturale (e non solo) della sua città amata-odiata.
Il tour leopardiano di Recanati è ben noto, e non c’è bisogno per chi lo voglia intraprendere, o rifare una seconda o terza volta magari con i figli, di grande preparazione: le informazioni sono a disposizione di tutti, sia sul web che in loco.
La piazzetta del “Sabato del villaggio”; il settecentesco Palazzo Leopardi con la celebre Biblioteca del padre Monaldo; la Casa di Silvia, e così via.
Quello che però non tutti sanno è che, da un po’ di anni a questa parte, a Recanati c’è la possibilità – da non perdere – di fare un vero e proprio tour immersivo nelle atmosfere leopardiane.
Bisogna raggiungere l’altura su cui sorge l’antico monastero di Santo Stefano, con il suo giardino conosciuto come l’Orto delle Monache.
Quello è il colle dell’Infinito. La casa natale di Giacomo Leopardi, infatti, è a pochi passi.
Vi ritrovate immersi in un vero e proprio parco letterario. Naturalmente dedicato al poeta di “A Silvia”, delle “Rimembranze” e, appunto, dell’”Infinito”.
L’area, a ingresso libero, è stata riqualificata nel 2018. Potete godere, al calar del sole, di una nuova illuminazione ispirata alla poetica della luna, frutto della collaborazione tra lo scenografo Premio Oscar Dante Ferretti e la iGuzzini.
Superate le cantine storiche di Casa Leopardi, la prima “tappa” del cammino sarà il Sacello leopardiano: una composizione simbolica di elementi architettonici e letterari, con pietre provenienti dall’originaria tomba di Giacomo Leopardi a Fuorigrotta di Napoli (e trasferiti a Recanati nel 1937; mentre i resti del poeta sono stati spostati a Mergellina, presso il Parco Vergiliano).
Poco più avanti, leggerete una targa sul muro: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Inutile spiegarne il motivo. Una targa più piccola spiega che nel 1937, centenario della morte di Giacomo, «con rito solenne di popolo fu tratta di quassù la terra che sulla tomba lontana di Fuorigrotta numerosi pellegrini recanatesi amorosamente deposero, simbolico compimento del desiderio ardente di lui di riposare per sempre in questo suolo diletto». Insomma, un gesto simbolico per far sentire l’anima di Giacomino – che come sappiamo mai troppo amò Recanati, né mai troppo dai concittadini fu amato, almeno in vita – un po’ meno lontana da casa.
Ma il cuore del parco è certamente l’Orto sul Colle dell’Infinito, l’Orto Giardino del Monastero di Santo Stefano, il luogo in cui “sedendo e mirando” il ventunenne Leopardi trovò l’ispirazione per una delle liriche più straordinarie (e innovative) di tutta la letteratura non solo italiana, e non solo dell’Ottocento.
Una comunità di Clarisse viveva qui fin dal Quattrocento. E’ però a partire dal XVII secolo che abbiamo notizie più dettagliate sulla vita del monastero e delle sue ospiti.
La quotidianità del convento era fortemente influenzata dalle vicende della città, sospesa nel sonnacchioso clima della provincia dello Stato della Chiesa che Leopardi ci ha così ben descritto.
Nella seconda metà del Settecento il monastero venne rimodernato e ampliato: aumentò la capienza del dormitorio, furono realizzati ulteriori magazzini e rifatto il pavimento della Chiesa.
Ma la ristrutturazione doveva servire a poco. Il 14 luglio 1810 l’ordinanza di Napoleone, Imperatore di Francia e Re d’Italia, cacciò le suore dal monastero, spogliate dal loro abito religioso.
L’edificio divenne quartiere di soldati di cavalleria e di fanteria, con conseguente rovina degli ambienti e perdita di diverse opere d’arte di valore.
Fu solo a partire dal 1850 che il convento, passato nelle mani della nobildonna e Beata Teresa Eustochio Verzeri e da lei restaurato, riprese un abito di minima dignità e poté ospitare anche una scuola.
La vocazione culturale ed educativa del luogo non si è fortunatamente perduta coi nostri giorni. Oggi il monastero è sede del Centro Mondiale della Poesia e della Cultura “Giacomo Leopardi”, che ospita giovani e studiosi da tutto il mondo, nonché del CNLS, il Centro Nazionale di Studi Leopardiani. L’Orto con la possibilità della visita immersiva di cui abbiamo detto sopra è gestito e curato meritoriamente dal FAI.
Il Museo di Villa Colloredo Meis. L’incanto di Lorenzo Lotto
Bisogna fare qualche passo (piacevolissimo) più in direzione nord tra le stradine del borgo, per arrivare all’altra “perla” di Recanati. Là dove, sempre in posizione dominante rispetto al centro storico, sorge la Villa Colloredo Mels con il suo prezioso Museo.
Il nome Colloredo, per chi sia appassionato di letteratura dell’Ottocento, evoca tutt’altri luoghi rispetto a questi dell’Italia centrale. I Colloredo sono storicamente una delle più potenti famiglie della pianura friulana.
“Da Colloredo a Collalto, che è il tratto di quattro miglia, mi ricorda che fino a vent’anni fa due agili e robusti cavalli sudavano tre ore per trascinare un cocchio tanto ben saldo e compaginato da resistere agli strabalzi delle buche e dei macigni che s’incontravano”.
Così scriveva Ippolito Nievo nelle sue Confessioni di un italiano. E proprio nel Castello di Colloredo di Monte Albano, in Friuli, Nievo trascorse lunghi periodi della sua giovinezza, specialmente d’estate: tanto che il castello di Fratta del romanzo nieviano è certamente ispirato a quello di Colloredo.
Ma torniamo al Colloredo recanatese. Si tratta di una villa nobiliare, con una parte addirittura di origine medievale; mentre lo scalone è cinquecentesco, e gli affreschi interni tipicamente settecenteschi. Come tutti i grandi proprietari terrieri di quei secoli, i Colloredo Mels possedevano terre un po’ lungo tutta la penisola: e di questa villa entrarono in possesso alla metà del ‘700.
Dal 1998 il palazzo dei Colloredo è la sede del Museo Civico.
Immancabile una sezione leopardiana: ricca di libri, documenti, cimeli, opere d’arte che appartengono alla collezione del Comune di Recanati. Notevole la raccolta, donata dall’editore Le Monnier, di documenti preparatori all’edizione delle Opere complete di Leopardi avviata nel 1845 da Antonio Ranieri; così come dà un qualche brivido la maschera funeraria di Leopardi, lì esposta. Interessanti anche i ritratti dei componenti della famiglia Leopardi. Troviamo Monaldo, Giacomo, Pierfrancesco, Carlo, Paolina e la madre del poeta Adelaide Antici. Emozionante la vista delle lettere manoscritte leopardiane, fra le quali la bellissima e accorata missiva al padre.
Ma abbiamo detto che Recanati non è solo Leopardi. E nella Pinacoteca della Villa ne abbiamo la prova.
Valeva la pena di arrivare sin qui per ammirare, infatti, uno dei capolavori dell’arte italiana.
Sono quattro, in realtà, le opere del grande Lorenzo Lotto (un altro non recanatese né marchigiano: un veneziano che, seguendo il proprio spirito inquieto, vagò per la penisola portando il suo genio artistico da Bergamo alle Marche).
Ci sono il Polittico di San Domenico (1506 – 1508); l’affascinante Trasfigurazione (1511 circa); il San Giacomo Maggiore (1512 – 1513). E il grande capolavoro, appunto: l’Annunciazione (1533 – 1535).
Lorenzo Lotto è stato a lungo uno dei grandi incompresi dell’arte italiana e mondiale. Cominciò all’inizio del Novecento la sua riscoperta, grazie a due colossi della storia dell’arte come Bernard Berenson e Roberto Longhi. Fu quest’ultimo in particolare a mettere in luce come Lotto, con la sua originalità fuori dai canoni della pittura “ufficiale” del Cinquecento, abbia anticipato molte delle inquietudini esistenziali e psicologiche dell’arte moderna, restituendoci un Lotto quasi “novecentesco”.
Tutto questo lo si può constatare apertamente davanti all’Annunciazione recanatese.
Di fede cattolica ma circondato da amicizie legate al luteranesimo, l’errabondo pittore veneziano fa dei soggetti religiosi più tradizionali (come appunto l’Annunciazione) un momento supremo di riflessione e di confronto tra la sfera del sacro e quella dell’umano.
Chiunque, sui manuali di scuola o altrove, abbia visto il capolavoro lottiano, non dimenticherà certo l’espressione di Maria, che si volge verso lo spettatore dando le spalle all’annuncio e solleva le mani sorpresa, con un’espressione turbata e succube; né la figurina del gatto che sguscia via spaventato anche lui dalla potenza divina dell’annuncio, in un interno di casa umile e dignitoso che potrebbe appartenere a qualunque epoca.
Si può ben dire, come fece Longhi, che siamo di fronte ad un capolavoro di modernità e umanità, capace di trasformare un tema religioso tradizionale in un’esperienza visiva e spirituale profondamente innovativa, e restituendo tutta la complessità psicologica e la dimensione storica del mistero dell’Incarnazione.
“Valeva bene la visita”, esclamerete alla fine!
I borghi del Recanatese. Cingoli e Treia.
Cingoli
Un altro imperdibile “balcone” sulle Marche è il borgo di Cingoli, che può vantare la presenza nell’ambita lista dei “borghi più belli d’Italia”.
Situato su un’altura del Monte Circe, a circa 630 metri sul livello del mare, offre un mix di raro fascino fra bellezze naturali, artistiche e storiche.
Il Balcone delle Marche, lo chiamano. E infatti dal celebre belvedere, la vista arriva fino al mare Adriatico e, nelle giornate particolarmente terse, addirittura fino ai monti della Dalmazia.
Il centro storico, ovviamente di impianto medievale, di Cingoli conserva, oltre alla cinta muraria, le porte storiche: Porta Montana e Porta Piana.
Le case più umili si alternano, com’è uso nell’urbanistica italiana, ai palazzi signorili: il Palazzo Municipale e soprattutto il Palazzo Castiglioni, che fu casa natale di papa Pio VIII.
A Cingoli, poi, c’è un altro capolavoro del Lotto. La Madonna del Rosario, una tela firmata e datata sul basamento sotto il piede della Vergine: L.LOTUS.MDXXXIX.
Commissionata dalla Confraternita del Rosario di Cingoli per un altare della chiesa di San Domenico, la tela fino alla metà degli anni settanta del XX secolo rimase in loco nell’edificio sacro, per essere poi trasferita per ragioni conservative prima a San Niccolò, poi nella Pinacoteca comunale, e infine ritornare nella chiesa di San Domenico.
Attenzione, però. Attualmente, a causa dell’inagibilità della chiesa, l’opera è custodita in una sala del Palazzo comunale: è lì che la potete ammirare in tutto il suo traboccante splendore, coi suoi quindici medaglioni contenenti i temi dei quindici misteri del culto mariano del Rosario.
E a tavola? Cingoli non delude certamente.
Dalla crescia di Cingoli, una sorta di focaccia o pane non lievitato, simile alla piadina romagnola ma più spessa e fragrante, al ciauscolo IGP, il salame marchigiano morbido e spalmabile, al coniglio in porchetta, aromatizzato con finocchio selvatico, aglio e rosmarino, ai vincisgrassi, versione marchigiana delle lasagne, molto ricca e con ragù di carne mista.
Tutto da gustare magari in occasione di eventi speciali, come la Sagra della Crescia, la Festa dell’Olio Nuovo o gli eventi estivi nella piazza centrale.
Treia
Tra i “borghi più belli” del Recanatese (e d’Italia) merita sicuramente una visita quello di Treia.
L’antica Trea, già insediamento dei Piceni e poi dei Romani, sorge su un colle a circa 342 metri di altitudine. La vista, al solito mozzafiato, qui spazia fra colline, campi coltivati e uliveti, fino ai Monti Sibillini.
A testimonianza del suo passato antico, Treia conserva nel suo Museo archeologico, inaugurato nel giugno 2004 presso l’antico convento di San Francesco, una bella collezione di resti di strutture, reperti, mosaici, iscrizioni e frammenti di edifici pubblici o privati.
Non certo senza stupore, vi troverete davanti addirittura dei reperti dell’antico Egitto!
Sono stati rinvenuti presso l’area dove sorgeva l’antica Trea, individuata a 1,5 km dal centro abitato, in corrispondenza del Santuario del Santissimo Crocifisso.
La zona era infatti un’area santuariale dedicata alle divinità egizio-orientali Iside e Serapide, di cui si fa risalire l’impianto alla metà del II secolo d.C.
Nel 1902, durante la demolizione della parte superiore del campanile antico della chiesa del SS. Crocefisso, vennero alla luce due statuette, pregevoli prodotti di arte egizia del III sec. a.C.: epoca tolemaica, quindi.
Treia è dunque tra i pochi siti a vantare, dalla prima metà del II sec. d.C., testimonianze del culto di Iside e del Serapide. A testimonianza di quale intreccio di culture e civiltà passasse per questi municipi e aree dell’Italia centrale durante l’età antica.
Ma i gioielli del territorio non sono solo questi. Oltre al tipico e suggestivo centro storico, al Teatro Comunale, elegante di forme settecentesche anche se inaugurato nel 1821, il territorio di Treia è punteggiato di splendide ville di delizia.
Villa Spada è una di queste. Di splendide forme neoclassiche, è opera nientemento che di Giuseppe Valadier, come attestato da un suo schizzo autografo del 1815 per il progetto del prospetto principale. Vanta anche un meraviglioso parco di circa 2.9 ettari, completamente cinto da mura e con al suo interno giardini all’italiana, orti, ampie zone boscate e magnifici alberi secolari.
Purtroppo la villa è attualmente chiusa alle visite per lavori di ristrutturazione: ma è auspicato da tutti che presto possa riaprire.
E poi, a Treia, c’è il Gioco del Pallone col Bracciale, la storica disciplina sportiva di cui cantò Giacomo Leopardi nell’ode a Carlo Didimi, campione dell’epoca.
Il gioco si praticava in speciali arene, dette “sferisteri”, realizzate soprattutto nel XVIII e XIX sec. in molte città grandi e piccole dell’Italia centro-settentrionale.
Questi veri e proprio stadi avevano il terreno piano e ben battuto, lungo dai 90 ai 100 m e largo dai 16 ai 18, con intorno un po’ di spazio per il pubblico e un muro d’appoggio laterale alto una ventina di metri.
Le squadre sono composte da tre giocatori detti, a seconda del ruolo, battitore, spalla e terzino. Vi è poi il mandarino, chei ha il compito di lanciare (mandare) la palla al battitore, il quale scende con slancio da un trampolino inclinato cercando di colpirla col bracciale. Come nel tennis (ma anche nel baseball e nel cricket, che le divise bianche dei giocatori ricordano), la battuta mette in movimento la palla all’inizio di ogni gioco. E come per il tennis, anche per il bracciale il conteggio dei punti è ogni 15.
Lo sferisterio di Treia, costruito sotto i capimastri De Mattia e Graziosi, venne inaugurato nel 1818 con una spettacolare partita alla quale partecipò appunto il giovane Carlo Didimi.
Poi, per esigenze legate alla viabilità, venne trasformata in una strada con annesso parcheggio.
Tranne che nei giorni di fine luglio/inizi agosto. Quando scatta la Disfida annuale del Bracciale, che si tiene Ininterrottamente dal 1979, preceduta da dieci giorni di festeggiamenti.
Ed è un appuntamento che vi consigliamo caldamente di non perdere.