C’è una linea sottile, e a volte letale, che attraversa il Myanmar. È una linea invisibile se vista dall’alto, ma capace di segnare profondamente le vite di chi vive in quella terra. Si chiama faglia di Sagaing, ed è lì, da sempre, a ricordare che certe forze sotterranee non si spengono mai davvero. Il 28 marzo 2025, alle 6:20 UTC, è accaduto di nuovo: un terremoto di magnitudo 7.7 ha colpito il centro del Paese, con epicentro a pochi chilometri da Sagaing, portando con sé una nuova scia di paura e distruzione.
Il Myanmar si risveglia ancora una volta sotto le macerie, in un territorio già segnato da un passato sismico che non lascia tregua. Mandalay, uno dei centri urbani più importanti del Paese, ha subito i danni maggiori, ma le vibrazioni sono arrivate ben oltre i confini nazionali, toccando Bangladesh, Thailandia e perfino la Cina meridionale. Non si conosce ancora il bilancio definitivo delle vittime e dei danni materiali, ma è chiaro che non si tratta di un evento isolato. È un altro tassello in un mosaico di sofferenze che si compone da secoli lungo una delle faglie più attive del continente asiatico.
Non è un caso isolato né una tragica fatalità. Il Myanmar è storicamente vulnerabile a eventi sismici di grande entità. La faglia di Sagaing, che taglia il Paese da nord a sud, è il luogo dove la placca indiana e quella birmana si sfiorano e si spingono a vicenda in un lento ma inesorabile processo di accumulo di energia. E quando questa energia si libera, lo fa con una violenza che non risparmia nulla. Già nel 1839, la città di Ava (l’odierna Inwa) fu rasa al suolo da un sisma stimato tra 7.9 e 8.3 di magnitudo. Un secolo dopo, nel 1930, fu la volta di Bago, dove si contarono migliaia di vittime.
E poi ancora Sagaing, colpita duramente nel 1946 con due scosse a distanza di poche ore, e infine Bagan, con i suoi templi secolari sfigurati prima nel 1975 e poi nel 2016. Proprio Bagan è l’immagine più eloquente di quanto la cultura e la storia possano essere vulnerabili di fronte alla forza della natura: centinaia di strutture religiose, molte delle quali risalenti all’XI secolo, danneggiate o crollate. E ogni volta, come in un copione che si ripete, si ritorna a parlare di restauro, di ricostruzione, di resilienza.
C’è però un elemento che ha contribuito, almeno in parte, a contenere le conseguenze umane dei sismi: le abitazioni tradizionali in legno e bambù, comuni nelle aree rurali, tendono a resistere meglio alle scosse rispetto alle costruzioni in cemento e mattoni che dominano le aree urbane più recenti. Ma questo non basta. L’espansione edilizia disordinata, spesso priva di criteri antisismici, continua ad aumentare la vulnerabilità di molte comunità. E intanto, l’ombra della faglia resta lì, sotto i piedi, silenziosa e sempre in attesa.
Investire in costruzioni sicure, rafforzare i sistemi di allerta precoce, promuovere una cultura della prevenzione: sono queste le azioni che possono fare la differenza, perché la memoria del passato non resti solo un elenco di date e disastri. Ogni scossa racconta una storia che non è solo geologica, ma profondamente umana. E ascoltarla, finalmente, potrebbe essere il primo passo per cambiare il finale.
Il sisma del 28 marzo è l’ultimo in ordine di tempo, ma non sarà l’ultimo in assoluto. La geografia del Myanmar è ciò che è: un sistema vivo e attivo, che non lascia spazio a illusioni di stabilità. Forse non si può evitare il prossimo terremoto, ma si può — e si deve — lavorare per limitarne le conseguenze.
Fonti e link:
Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) – terremoti.ingv.it
Dati sismici storici – Global Earthquake Model Foundation
Rapporti UNESCO e UNESCO Bangkok – Earthquake Risk Reduction
UNDRR Regional Office for Asia and the Pacific
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