[sc_embed_player fileurl=”https://discorsigreen.s3.eu-central-1.amazonaws.com/fastfashiongreentomeet.mp3″]
Negli ultimi decenni, il settore della moda ha subito una trasformazione senza precedenti con l’avvento della cosiddetta “fast fashion”, un modello di produzione e di consumo che si basa sull’ideologia dell’usa e getta, e che ha portato a una rapida crescita dell’industria dell’abbigliamento a livello globale. Peccato che dietro il glitter e il glamour di questi abiti a basso prezzo si nasconda un lato oscuro che sta causando profonde conseguenze sul pianeta.
La fast fashion si caratterizza, infatti, per la creazione di capi di abbigliamento a basso – talvolta bassissimo – costo, e di scarsa qualità, che vengono realizzati in quantità eccessive e con cicli di produzione rapidi, per consentire un continuo rinnovo della merce.
Lo scopo è incentivare un consumo impulsivo e frequente da parte dei compratori che, in negozi fisici o, più frequentemente, tramite app, possono acquistare a prezzi accessibilissimi capi di tendenza. E se l’abito comprato online non piace? Non c’è problema, è possibile mandarlo indietro e avere un rimborso totale.
Ahimè, è facile dedurre che tutto ciò ha un impatto devastante sull’ambiente.
Il lato oscuro della fast fashion
In primis, la produzione su larga scala di capi di abbigliamento richiede enormi quantità di risorse, tra cui acqua ed energia. Inoltre, i processi di realizzazione e di tintura dei tessuti spesso generano un notevole numero di rifiuti tossici che vengono smaltiti in modo non sempre ortodosso, contaminando le risorse idriche, e danneggiando gli ecosistemi circostanti.
Ancora, il trasporto dei capi di abbigliamento finiti, frequentemente prodotti in Cina, e spediti in tutto il mondo, comporta un notevole impatto sulle emissioni di gas serra che contribuiscono all’innalzamento delle temperature globali.
La fast fashion, oltretutto, alimenta la cultura dello spreco e dell’usa e getta, con milioni di tonnellate di tessuti che finiscono ogni anno in discarica. Il ragionamento infatti è, purtroppo, il seguente: compro, tanto costa poco, se non mi piace rimando indietro, o peggio, butto via. Non si pensa, però, a quanta Co2 si produce per restituire da un capo all’altro del mondo un abitino. Né si pensa alla fine che fanno tutti i capi di abbigliamento rimasti invenduti.
Bisogna, infine, considerare che questo modello ha anche un impatto devastante sui diritti umani dei lavoratori nell’industria dell’abbigliamento. Le fabbriche che producono capi per marchi di fast fashion spesso, infatti, operano in condizioni di lavoro pericolose, e sfruttano i dipendenti con ore straordinarie non retribuite, salari bassi e mancanza di sicurezza.
Di fronte a queste realtà, diversi giornalisti, alcune note associazioni e gli stessi consumatori hanno incominciato a far sentire la propria voce.
L’appello di Greenpeace
Tra le campagne più note contro la fast fashion spicca la recente inchiesta di Greenpeace (Fast fashion: moda a basso costo, ma a quale prezzo?), che ha messo in luce come ogni anno, solo in Europa, vengano mandati al macero 230 milioni di capi d’abbigliamento praticamente nuovi. Tra vestiti e calzature, parliamo di 5 milioni di tonnellate gettate via, l’80% delle quali finisce in inceneritori o in discariche del Sud del mondo.
Greenpeace mette, inoltre, in luce come spesso sulle etichette di questi prodotti o sui siti delle aziende che li mettono in commercio compaiano promesse di sostenibilità: attenzione! Non è altro che greenwashing. Molti capi o accessori sono volutamente progettati per durare una stagione o per rompersi nel giro di poche settimane.
L’inchiesta di Milena Gabanelli
Anche Milena Gabanelli, nota giornalista del Corriere della Sera, in uno dei suoi Dataroom mandati in onda durante il TG di La7, ha approfondito il tema della fast fashion, indagando su un’azienda cinese nata 15 anni fa per vendere solo online a costi bassissimi (.. il lato oscuro del fast fashion).
L’app della nota azienda cinese, negli ultimi tempi è diventata estremamente popolare; ogni giorno carica online circa 500 nuovi modelli: come è possibile? Banalmente li copia, non a caso è sommersa da continue cause di plagio. Il suo pubblico di riferimento sono, inoltre, i ragazzi e i giovanissimi, proprio coloro che dovrebbero essere più sensibili e attenti alla causa ambientale…
I dati emersi dall’inchiesta sul danno che Shein fa al pianeta fanno tremare i polsi: per produrre una t-shirt di cotone Shein usa in media 2,7 mila litri d’acqua, poiché le piantagioni vanno irrigate; i residui tossici dei prodotti sintetici, che contengono sostanze nocive oltre i limiti di legge, inquinano i corsi d’acqua e, oltretutto, non sono sicuri a contatto con la pelle; infine, ogni anno vengono generate 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo il 15% viene riciclato.
Quale alternativa?
Fortunatamente sempre più consumatori si stanno rendendo conto dell’importanza di compiere scelte consapevoli quando si tratta di moda. Tutti possiamo contribuire a un cambiamento significativo, modificando le nostre abitudini di consumo, acquistando meno, scegliendo con cura, preferendo marchi che adottano pratiche sostenibili e rispettose dei diritti umani, o in alternativa comprando capi vintage e second hand.
Certo, la trasformazione dell’industria della moda richiede anche un impegno congiunto da parte di marchi, governi e organizzazioni non governative per rendere il settore più equo e sostenibile. È urgente adottare misure concrete, poiché la fast fashion rappresenta una seria minaccia per il pianeta.